Anno XXXV - Numero 8 - 28 settembre 2012

Dall'Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Ivrea, Pinerolo, Torino


La Corte di Giustizia europea si pronuncia sul trasferimento di un’impresa all’estero
a cura del Dott. Andrea Barabino, Dottore Commercialista in Torino


Nel nostro ordinamento il trasferimento della sede di un’impresa all’estero costituisce realizzo, al valore normale, dei componenti dell'azienda o del complesso aziendale, con contestuale applicazione dell’imposta alle plusvalenze che ne derivano. Così dispone l’articolo 166 del DPR. 917/1986 - Testo Unico delle Imposte sui Redditi.  Naturalmente questa sorta di exit tax, presente nella legislazione della maggior parte degli Stati europei, può ostacolare i programmi di trasferimento intracomunitario di un’attività d’impresa, poiché ciò può generare, in caso di cospicue plusvalenze latenti, un notevole esborso d’imposte.  

Sull’argomento si è pronunciata la Corte di Giustizia europea, con  la Sentenza C-371/2010  che, depositata il 29 novembre 2011, affronta il ricorso di una società olandese la quale, al momento di trasferire la propria sede amministrativa nel Regno Unito, aveva nel proprio attivo un credito in sterline inglesi che, generando una plusvalenza, avrebbe dato luogo a tassazione immediata nei Paesi Bassi.

I giudici comunitari, esaminando il problema alla luce dell’articolo 49 del Trattato dell’Unione Europea che fra l’altro recita: “…. le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro”, hanno stabilito che l’exit tax  può costituire una limitazione della libertà di stabilimento, ammissibile a condizione che sia “giustificata da motivi imperativi di interesse generale” e che la sua applicazione non dovrebbe eccedere quanto necessario al conseguimento dell’interesse stesso.

Da quanto sopra in concreto discende, secondo la Corte, che la determinazione della plusvalenza da assoggettare a tassazione debba avvenire al momento del trasferimento della sede in altro stato dell’Unione, ma che il momento della riscossione delle imposte, al fine di attenuare l’ostacolo alla libertà di stabilimento, possa anche essere individuato all’atto dell’effettivo realizzo delle plusvalenze, nello Stato di destinazione. Ciò, per la Corte,  rappresenterebbe una “forma meno coercitiva rispetto alla riscossione immediata”.

La Corte ha ritenuto che l’onere amministrativo derivante dalla riscossione differita non sarebbe eccessivo per gli Stati membri, proponendo una procedura che imponga al contribuente di presentare,  nel Paese di destinazione, una dichiarazione annuale allo scopo di versare allo Stato di provenienza l’imposta sulla plusvalenza relativa ai beni dell’azienda trasferita che nel frattempo siano stati alienati.

L’auspicabile recepimento in Italia degli orientamenti della Corte di Giustizia sopra esposti dovrebbe portare ad una parziale riscrittura dell’articolo 166 - Testo Unico delle Imposte sui Redditi.
 


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